Superato il primo lockdown, la sharing economy chiuderà un 2020 senza precedenti. Interi modelli di business sono stati travolti dopo che l’emergenza coronavirus ha costretto milioni di persone in casa. Il distanziamento sociale, lo smart working e la paura hanno fatto il resto. Con le grandi città sempre più deserte, le bici del bike sharing e i monopattini del free floating sono rimasti orfani di utenti. Senza turisti da tutto il mondo, capitali dell’arte come Roma, Venezia e Firenze non sono più state quel pozzo di opportunità per gli host di Airbnb che, in alcuni casi, si sono distinti mettendo a disposizione gratuita i propri appartamenti per il personale medico sanitario. In attesa di capire quanto durerà questa seconda ondata, quali sono le prospettive della sharing economy la città del futuro?
«Si possono offrire agli altri i nostri beni e i nostri spazi mettendoli a frutto economicamente». Così, nel 2015, scriveva la giornalista Gea Scancarello in Mi fido di te, uno dei primi libri sulla sharing economy pubblicati in Italia. Appena cinque anni sono passati, ma sembra un’epoca. In poco tempo tutto il mondo ha imparato a conoscere app come Uber, Airbnb, BlaBlaCar e le tantissime altre piattaforme dell’economia della fiducia e della condivisione. «In questa crisi mi sono sentito come il capitano di una nave colpita da un siluro» aveva dichiarato il CEO Brian Chesky in un’intervista la scorsa primavera. Una volta scoppiata la pandemia, l’azienda aveva subito garantito il rimborso totale delle prenotazioni, stanziando per i proprietari di casa 250 milioni di dollari utili, però, a coprire soltanto il 25% delle perdite. Per far fronte a questo tsunami, l’azienda ha dovuto chiedere un prestito da 2 miliardi di dollari.
Ma il futuro è così negativo per il settore? E, allargando di più il tema, davvero la sharing economy si può riassumere in quei colossi tech che hanno dominato il mondo dei consumi e dei servizi dell’ultimo decennio? Secondo Marta Mainieri, autrice nel 2013 di “Collaboriamo!” intervistata da Morning Future, non c’è soltanto il mondo dei Big. «C’è una forma di sharing che nasce dal basso, dalle comunità, e punta a rispondere a dei bisogni – ha spiegato – La vera difficoltà che vive la sharing economy non è la crisi dovuta al virus. La verità è che in primo luogo mancano investimenti coraggiosi che credano in questo modello. Tantissime pratiche si estinguono perché non ci sono i soldi per scalare e crescere. Manca una finanza che decida di credere nelle possibilità, anche remunerative, del sociale». Nei mesi scorsi tanto è stato fatto: esperienze di solidarietà e di condivisione hanno permesso, ad esempio, la raccolta di tablet e device da distribuire ai pazienti negli ospedali per permettere loro di parlare ogni giorno con i famigliari.
Nonostante la crisi ancora in corso in Europa e nel mondo, nessuno ha finora dato la sharing economy per spacciata. È vero: il settore ha affrontato un anno complesso, dopo una lunga stagione in cui gli affari sono andati a gonfie vele. Ma i report elaborati nel pieno della pandemia suggeriscono che, nel lungo periodo, questo modello di business ritroverà un nuovo equilibrio. Il 7 maggio è stato pubblicato un report che, alla luce della pandemia e dei suoi effetti sui servizi di condivisione in tutto il mondo, conferma comunque uno scenario di crescita «significativa» per la sharing economy fino al 2027.