La città del futuro è una città più umana, un luogo dove le esigenze tra il territorio e l’uomo si intersecano creando un profondo e più giusto equilibrio. Il professor Domenico De Masi, attento osservatore della nostra società. professore emerito di Sociologia del lavoro all’università La Sapienza di Roma, ha tratteggiato il mondo che verrà sotto l’aspetto sociologico e lo ha fatto in questa intervista a City Vision partendo da un presupposto: la città offre servizi e anonimato e garantisce, almeno teoricamente, lavoro e affrancamento. «Nel corso dei secoli abbiamo avuto varie fasi: la città è diventata metropoli per arrivare a megalopoli. Ora dovrebbe diventare telepoli: un luogo in cui ci si muove il meno possibile con il corpo, dove la vita urbana è più razionalizzata. L’uomo e la città sono un tutt’uno: se l’uomo è felice, la città ne trae benefici e viceversa».

Ma quando si parla di futuro, innovazione e intelligenza tecnologica, inevitabilmente il discorso cade sulla grande trasformazione che l’uomo e la città hanno subìto a causa della pandemia. «Il coronavirus – ha detto il professore De Masi – ci ha insegnato tante cose. È cambiato il rapporto tra spazio e tempo: prima avevamo tanto spazio e poco tempo, durante la pandemia abbiamo avuto tanto tempo e poco spazio. Inoltre la pandemia ci ha insegnato la differenza profonda tra necessario e superfluo. Abbiamo imparato che durante le crisi aumentano le disuguaglianze. Abbiamo visto che, soprattutto nelle città, si sono evidenziate differenze enormi tra garantiti e meno garantiti.  Abbiamo capito l’importanza del volontariato, delle competenze e quanto sia necessario avere una cabina di regia e leader che sappiano prendere decisioni con saggezza».

Come se la pandemia, facendoci capire quanto siamo vulnerabili in un mondo globale, ci abbia riportato dentro un nuovo sistema naturale. Prima l’ambito digitale sembrava l’unico elemento in grado di supportare e guidare lo sviluppo umano, materiale e immateriale. Poi l’epidemia ci ha fermati. Ci ha dato il tempo e l’ispirazione per ripartire dal nostro rapporto con l’ambiente circostante. «Tutti – ha aggiunto il sociologo – si sono avvantaggiati, per esempio, dallo smart working». Sul lavoro agile il professor De Masi ha scritto anche un libro, sostenendo che la pandemia ha inaspettatamente accelerato questo processo che proseguiva con lentezza a causa di un ritardo culturale di aziende e pubbliche amministrazioni. Tuttora molti si affannano a correre da una parte all’altra perché i ritmi della catena di montaggio tardano a dileguarsi, ma lo smart working arriva al momento giusto per facilitare la loro liberazione.

Il risparmio è notevole: di tempo, di soldi e del pericolo di incidenti. Si decide dei propri orari, si conciliano interessi e propensioni. Si lavora in autonomia, per risultati. De Masi si è impegnato a dimostrare i benefici del telelavoro fin dagli anni ’70, ma solo oggi con la pandemia i dati gli stanno dando ragione. Secondo l’Istat, il 90 per cento delle grandi imprese e il 73,1 per cento di quelle di media dimensione hanno introdotto o esteso il lavoro a distanza per l’emergenza. In tutte le Regioni è stato superato abbondantemente il 50% del totale del personale in smart working o telelavoro, ad eccezione della Calabria che si è fermata a quota 46%. Insomma, in questi mesi l’Italia ha avuto una spinta a una nuova modalità lavorativa che sarà parte integrante delle città del futuro. «Si è fatta avanti una migliore vivibilità dei quartieri, meno oppressi da traffico e smog – ha concluso il sociologo – Se un uomo è felice in una città, la città ha fatto il suo dovere».

di Denise Faticante

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